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 Giuseppe Sigillò

 

Al Posto detto "Timpa"

 

Una sera del mese di dicembre ci riunimmo nel salotto del medico condotto, perchè si era mosso il levante. Il levante è un vento che amano molto i cacciatori di tordi, perché quando spira, nei pressi del mio paese - e precisamente sulle falde delle serre di Giffone -, i tordi arrivano a migliaia da tutte le parti e si riversano su quelle falde per passarvi la notte.

Il medico, appassionato di caccia, desiderava un bel posto che non lo facesse rimanere col fucile appeso alle spalle, perciò decidemmo di occupare per lui il posto chiamati "Timpa". Si doveva, però, mandare qualcuno di buonora per occupare la "Timpa", perché quel luogo, quando il levante si sveglia, fa gola a migliaia di cacciatori della Piana. Due uomini che prendevano parte alla riunione si offrirono volontari per andare sulle montagne ad occupare la "Timpa".

Il vento quella sera sibilava e gli oliveti le cui foglie scrosciavano, resistevano alla furia del levante, mentre le olive ormai mature coprivano di nero il suolo sottostante. Noi, riuniti, eravamo felici pensando all'indomani, ed ognuno di noi sperava che il vento continuasse a soffiare. Erano le venti e trenta quando ci salutammo. Saverio e Michele si armarono di fucili, di bossoli, di fiammiferi e di una bottiglia di whisky per bere durante la notte nel caso sentissero freddo, sebbene indossassero cappotti pesanti. Sulla montagna, dormire di notte all'aperto come le pecore all'addiaccio, era un'esperienza nuova; perciò era bene pensare a tutti gl'inconvenienti. Saverio, un uomo di venticinque anni, figlio di un boscaiolo di Giffone, che abita nel mio paese perché ha sposato una ragazza di Tritanti, è un giovane biondo, con gli occhi azzurri, il corpo agile e resistente, avvezzo ai lavori pesanti ed alle intemperie. E' rosso in viso e ratto al passo, buono e sincero; uno di quegli uomini sani che solo la natura, la miseria e la fatica del nostro ambiente calabrese sanno dare. Michele, di più robusta costituzione, fa lo spazzino e con il povero stipendio tira avanti una famiglia numerosa. Bonaccione, volgare e ridicolo, maligno e grossolano ad un tempo, Michele - che era il più anziano dei due volontari - faceva da guida con una lampadina tascabile. Tutti e due allegri e contenti, col vento che infuriava e strepitava loro in faccia, s'incamminarono verso la montagna confondendosi nella notte rigida e scura.

Nuvoloni neri si erano accavallati quasi per dispetto ed avevano spento quei corpi luminosi che nelle notti serene aiutano spesso il viandante. Camminarono scivolando per monti e valli per circa tre ore e finalmente giunsero nel vallone della "Timpa". Ormai rimanevano solo pochi metri di salita faticosa e in breve si trovarono lì, sulla "Timpa". Così mi raccontò Michele, quando l'indomani io, il medico ed un altro cacciatore di nome Agostino Andammo a raggiungerli sulla falde di quella "Timpa". era la prima volta che mi recavo su quella montagna per cacciare; ma chi ha dato a quel posto il nome "Timpa", non ha sbagliato, perché per poterlo raggiungere si deve seguire un viottolo ripidissimo verso la montagna di fronte. Alla destra del cacciatore c'è un vuoto di circa cinquecento metri, che fa un po' paura. Comunque, quello è il miglior posto di caccia nella zona.

I due compagni raggiunsero la meta all'una di notte, e - stando a quel che disse Michele - sedettero, accesero il fuoco, si riscaldarono; ma il freddo della montagna si faceva sentire sempre di più, tanto che il più giovane, Saverio, disse all'altro: "Michele, beviamo un pò di whisky, perchè mi pare, questa notte, che non facciamo altro che andare all'altro mondo e ritornare".

"Sì, beviamo, compare Saverio!" rispose l'altro. "Qua, bevete voi!" "No, per l'amor di Dio!" "Prima bevete voi che siete il più anziano."

Michele pensava: "Noi siamo seduti con la schiena appoggiata alla parete e le gambe penzoloni nel crepaccio; se approfitto del liquore, può darsi che mi giri la testa e vada a finire nel vallone e mi ammazzi". Allora portava la bottiglia alle labbra senza inghiottire il whisky, poi la porgeva all'altro  dicendo: "Bevete, compare Saverio, questo riscalda più del fuoco". E l'altro: "Sì, bevo, compare. Bevo, perché sto morendo di freddo," e, presa la bottiglia, con un sorso ne buttò giù quasi una buona metà.

Non erano passati neanche quindici minuti, che compare Saverio si ricordò di nuovo della bottiglia, e, rivoltosi al compagno: "Michele," disse, "pare che il freddo non passi; beviamo ancora!".

E l'altro: "Sì compare Saverio, beviamo ancora! Ma questa volta bevete  voi per primo". Compare Saverio ubbidì e si scolò quasi interamente l'altra metà, poi porse quel poco che era rimasto a Michele, il quale finse di bere il liquore, e lo buttò per terra. Dopo un po' cercarono di prendere sonno, ma era inutile: Michele se ne stava accoccolato alla meglio coi piedi al fuoco e con la schiena appoggiata alla parete della montagna, pensoso ed un po' raffreddato: l'altro incominciava a sentirsi il fuoco nelle vene e, rivoltosi al compagno, disse: "Michele, adesso mi pare di sentir caldo". E Michele: "Sì, compare Saverio, perché vi siete ubriacato; state attento a non cadere nel burrone".

Intanto il pettirosso, col suo canto sottile, annunziava l'alba, e Saverio si alzò ed incominciò a saltare come un gatto, tirando di scherma con le spine, tantochè la mattina era tutto graffiato come se l'avessero scaraventato in un roveto. Salterellando, a rischio della propria pelle, diceva parole senza senso alle spine e agli alberi circostanti; sembrava Don Chisciotte contro i mulini a vento. Michele, che comprendeva il pericolo, lo chiamava continuamente, ma invano. Alla fine, dopo essersi sfogato, - ed era già giorno - Saverio disse: "Michele, lanciate in aria quella bottiglia vuota e vedrete come la colpisco in pieno, col mio fucile". Michele lanciò la bottiglia, e Saverio sparò due colpi, ma la bottiglia rimase intatta. Allora Saverio Saverio dichiarò che sarebbe andato sul vallone a sparare alle beccacce. Dopo circa due ore, se ne tornò con un pettirosso che aveva colpito per caso. Michele si mise a ridere, ma molto di più ridemmo noi quel giorno, quando li raggiungemmo, verso le tredici. Li trovammo sdraiati per terra, sembravano piombati in una catalessi. Michele era sfinito, come se avesse fatto mille chilometri di corsa; l'altro era trasandato, con gli occhi gonfi e le pupille arrossate: non riusciva a parlare chiaramente. Io, il medico e Agostino, ma anche Michele, ridemmo a crepapelle, poi io porsi loro il pranzo ed una bottiglia che conteneva due litri di vino. Mangiarono con avidità, ed anche noi di tanto in tanto prendevamo qualcosa - non per fame, ma per far loro compagnia. E, bevi tu che bevo io, in poco tempo la bottiglia fu nelle stesse condizioni dell'altra.

Finito il pranzo, compare Saverio si allontanò da noi barcollando, e disse che andava a cercarsi un posto per cacciare. Michele lo chiamò e gli disse: "Compare Saverio, andate a dormire; perché oggi, con tanti cacciatori, vi può succedere una disgrazia". E credo che fece proprio così Saverio, perché nessuno lo vide sulla montagna. Solo verso sera si presentò al posto dove avevamo fissato di riunirci, ma arrivò senza tordi. Era stanco e pareva un pò rimbambito, si vede che il vino e il sonno lo avevano stordito.

Michele non si mosse, rimase lì col medico, perché aveva un cane da caccia che obbediva solo a lui. Così, mentre il medico sparava, Michele mandava il suo cane a prendere i tordi che cadevano nella "Timpa".

 

 

 

 

Brano tratto da 

IL CENTONE

AUTORI ITALIANI CONTEMPORANEI

REGIONE LETTERARIA,  BOLOGNA, 1971

 

 

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